Roma, al "Lupanare e are"
Roma, al "Lupanare e are", locale sull'Appia Antica
con rovine sullo sfondo, sera d'estate (1959)
... oggi (ieri) è venuta nel locale questa mia
compagna di scuola anni fa, tavolo prenotato
per sei, donne e uomini. Canto l'ultimo pezzo
prima dell'intervallo lungo, sto per scendere
dalla pedana, lei si alza dal tavolo, mi pare il 16,
si avvicina, mi chiama da sotto in su col cognome,
la guardo, pronuncia un altro cognome, il suo,
aggiunge il nome dell'istituto scolastico e poi:
terza C. Lo strano è che ricordo subito tutto.
Non è strano, sempre ricordo subito tutto,
per esempio Ugo De Cinti, che studiava piano,
e passavamo la ricreazione nell'aula di musica
e lui suonava il Risveglio di primavera. Lei anche
la ricordo, viso rotondo, capelli corti rotondi,
rotonda anche lei, bella paffuta, studiosa, niente
tra noi a quel tempo. Così andiamo a passeggiare
in giardino, nella notte, oltre le auto parcheggiate,
nello sterrato di stelle, sul quale certe luci radenti
di fari lasciati accesi corrono come talpe luminose
facendo brillare schegge di vetro e frammenti
di mica. È vestita color perla avorio, un'anfora
in un abito longuette con corpino modellato, i seni
in due coni grandi quanto due imbuti da oleificio:
una signora. Guardo le stelle e parlo di grembiuli
neri, lei volta il viso verso il mio, mi aspetto che dica
"dicevi?", invece mi bacia, ampia, come se m'imboccasse
con una mestolata di rossetto e trucco pastoso...
poi dice "una volta lo dobbiamo fare" mentre la sua
bocca scivola sulla mia guancia verso le mie orecchie,
le parole tutte bagnate, "a Ginevra", dice, dove
una casa è "nella mia disponibilità", mia sua.
In classe avremmo parlato due o tre volte, le avrò
al massimo chiesto quale materia insegnasse
un professore appena seduto in cattedra, ero
veramente svogliato. Mentre passavamo tra le auto,
prima, m'è parso, misto alla brecciolina pestata,
d'aver colto "oggi insegno". Nella mia disponibilità:
la trovo una frase scorretta, sia nella forma
sia nella sostanza. Non lo dico con la voce parlata
ma con la voce interna che è udibile, fuori
da questo campo, dall'universo ma non da lei.
Infatti lei: "Non dici niente, stella?". Con tutte le stelle
in cielo, chiama stella me. Mi viene in mente la stella
sulla porta del camerino, che è una stella per scherzo.
Sono un cantante ossia una figura astratta,
come le stelle dei versi. È questo che le piace:
quel pugno di polvere di stella sgretolata dall'amore,
a cose fatte. Tornando indietro, con i piedi dallo sterrato
alla brecciolina, mi dice "Siamo un popolo di poetesse,
di poeti, di scrittrici, di scrittori, di registe, di sante
e santi, navigatrici, navigatori nelle nostre crisi, nervose,
esistenziali, fino all'esaurimento, anche quello
un po' nervoso, o tanto. Solo tu, come cantante,
e i fisici, tu e i fisici sapete quello che fate o, senza
saperlo, comunque lo fate: i fisici scindono l'atomo,
che è un punto, tu spacchi il punto critico, il cuore".
Qui qualcuno spegne le stelle. Questa scena, poi,
è stata tagliata, non appare nel film da poco
uscito, che fa la réclame a un maglione
maschile a collo alto.