Il dottor Levinas
La sua testa pare un uccellino che si solleva dal nido del corpo, un viso nudo, soltanto un po’ velato. Subito si direbbe: di malinconia; invece no: di sopportazione. Le penne delle ali sono ancora lineari, i vessilli ancora trattenuti nelle cannucce: sono i capelli pettinati in foggia di alucce. È il dottor Levinas. Se l’è vista brutta, torna da una prigionia di guerra. Insomma, il suo corpo è un nido e la sua testa è un uccellino che si sporge dal nido perché riconosce nella musica un battito d’ali materno, la madre pennuta che torna, che gira al di sopra dei tavoli, distratta e allarmata dai rumori e dai luccichii dei bicchieri. È così: la musica senza il disturbo degli ascoltatori è ancora un sogno. Quando canto, ossia quando non ho niente da fare, penso, oppure faccio l’amore corrisposto con una cliente che mi collima e mi combacia. Oppure guardo senza essere visto, per curiosità e distrazione (cantare è distrarsi): questo è il caso, adesso. Guardo questo tipo al tavolo, il dottor Levinas (saprò dopo il suo nome e il suo prestigio), che un po’, nel tratto della testa, si sporge come un uccellino e un po’, con le braccia, le mani e il tronco, prende appunti sopra un quadernetto. Quando prende appunti, l’uccellino della sua testa sta lì lì per cadere fuori bordo, quasi tenta un volo prematuro, poi però si impaurisce davanti all’abisso, in basso, della scrittura, e torna con tutto se stesso nel nido, ossia con la testa, che pensa, sul collo. Finito di cantare, io, che sono cantante e non uccellino, finito di cantare, durante l’intervallo, passo davanti al bancone del bar, mi faccio dare una bottiglia di cognac e quattro bicchieri (sono in tre al tavolo). La bottiglia appesa alla mano: due dita intorno al collo, i bicchieri come un monile – i gambi di tra le dita dell’altra mano – vado al tavolo di questo signore. Beva con me, gli dico e, a palmo aperto in basso, poso, dritti, i bicchieri sulla tovaglia. Bevete con me, dico poi, versando il cognac. Beviamo, prendo una sedia (hanno piacere che sieda), mi siedo accanto al signor, signor?, Levinas, studioso, quindi dottore: ha in cura le parole. Bene. Infatti, confermando che la testa è un uccellino, pigola, anche perché non è italiano, e il po’ d’italiano che conosce è nidiaceo. Cosa ha scritto mentre io cantavo? Ha scritto questo: “La canzone realista è affascinante, è un tramite verso una inaspettata sincerità. I sentimenti deperiti, stinti, offesi da una esistenza borghese ritrovano nella canzone la loro lontanissima essenza originaria, che questa esistenza ha completamente profanato”. L’atto, aggiungo io, l’atto stesso dell’ascolto in questa esistenza, questa, questa che noi viviamo, questo atto in questa esistenza offende e avvilisce il canto. Il tempo del canto non è mai il tempo di chi ascolta. È così: la musica senza ascoltatori è ancora un sogno. È più che vero, è bello assai quello che il dottore ha scritto. È più di una diagnosi indovinata, più di una ricetta risolutiva, è lo sputtanamento della malattia. La sua testa, che è un uccellino, sta in un bosco, sopra un ramo alto, e sa che volerà. Io, sullo stesso ramo, dallo stesso ramo, piscio sulla clientela, perché nell’intervallo non sono andato in bagno.