Dal Diario - Luglio 1961
Dal Diario - Luglio 1961
E così si è ammazzato, s'è sparato.
Nemmeno dieci anni fa pubblicò quel libro fortunato.
Per il libri è come per i capelli di Napoleone.
Non serve a niente che siano intelligenti come il cervello.
Nemmeno che siano astuti serve a niente, non stanno mica sulla coda della volpe.
O sono fortunati o cadono, Napoleone li perse più delle battaglie.
I libri esprimono il livello di presunzione ossia di istruzione raggiunto da un popolo.
Il livello più basso d'insegnamento è quello impartito dalle due maestre più fetenti: la fame e l'oppressione. Due grandi scuole. Provocano grandi pruriti alle mani e grande crescita letteraria, quella dei capelli ribelli, molto contrari alla caduta propria ma non a quella di qualche testa.
Da quel livello in poi, più si sale e più ci si pettina ossia si scrive per ostentazione, con la riga o con studiati scompigli, si scrive perché si è lettori e perché si è invadenti, si scrive da intrusi in uno specchio da parrucchiere . E "scrittore" diventa un epiteto nauseante, stomachevole, infatti certe faccette di sedicenti se la vomitano addosso, e siccome la cosa gli pare eroica – la vomitata intendo – poi se ne insigniscono appuntandosela questa parola spinosa sul corpo che è un palloncino nel quale hanno soffiato tutte le loro ariette, gonfiandolo come un'ernia di vacca. Puoi immaginare, dopo il botto, svanita l'aria, cosa resta: un brandello floscio di pelle, una pellicola che, se la tendi tra le labbra strette e soffi viene fuori una pernacchietta, questo è quello che viene fuori, questo è quello che l'epiteto merita. Avremo la scrittura universitaria, addirittura laureata, avremo tipette e tipetti che derideranno chi non conosce una certa parola, o la deforma ripetendola. Avremo degli schifosi che si macchieranno con questa colatura lurida: il dileggio. Oltre il significato, ogni parola porta in sé una derisione.
E sì, è passato meno di un anno dall'uscita del suo libro fortunato.
Più di un anno da quando me ne parlò.
Avevo cantato per metà della notte, passammo l'altra metà a bere e a parlare di canzoni, del suo libro e di canzoni: le parole delle canzoni e le parole del suo libro.
— Le ho usate, stavolta, le parole, mi disse… io che non le uso mai, le ho usate come nelle canzoni, come chi non ha niente da dire se non questo: che dopo la strofa c'è il ritornello, e puoi ripetere tutto due volte, tre sono troppe se non dimezzi, alla fine devi dire la metà e anche meno di quello che hai detto in principio. Sai, quando chiedi a che pensi e la risposta è quasi sempre "a niente"? Cosa sappiamo? Che è impossibile, che chi ti risponde così mente. Uno solo non mente, tu lo sai: il cantante. Quando canta, quando è in serata buona, canta e non pensa. Si permette il lusso. Il mare, cosa significa il mare? Un bestione nel mare, cosa mi significa? Il mare è il mare, un bestione è un bestione, per me non devono significare niente, altrimenti su uno non ci galleggio e l'altro lo perdo. Sarà il pubblico a dire cosa significheranno, il pubblico sa tutto, sa cose che tu ti sentiresti un morboso se le pensassi. Figurati saperle, figurati. Cercare significati è da vile, trovarli è da delatore, un vile che fa nomi, e li fa a se stesso, alimenta la coscienza a spiate, pensa un po' che ne viene fuori. È una cosa un po' schifosa il senso delle cose, c'è chi se ne nutre. Quello della vita, poi, lasciamo perdere, è quel che è: roba da maniaci. Non pensare è la cosa più difficile ma è la più riuscita facilità d'esistere. Per questo tutti vorrebbero cantare. Tutto pare facile, cantando, ma è difficilissimo farlo sembrare così facile, se ci provi non ci riesci, non ci devi provare, ci devi riuscire senza provarci. Nelle grandi canzoni è così, e quando dico grandi canzoni intendo le canzoni che esiliano il pensiero. Le più belle, le splendide sono quelle che non dicono niente. Che dicono che non dicono: questo è il massimo. Di cosa stiamo parlando? Dell'opera assoluta. Perché durano poco, le canzoni? Perché non possono durare di più. Non ce la fanno, non ce la possono fare. Non si può, a lungo, non pensare. Sarebbe una lotta enorme come tra l'uomo e una parola che nella canzone ci sta sempre bene, e infatti è usata spessissimo in ogni lingua: il mare. Il mare con dentro i suoi bestioni insensati. La canzone non prevede continuazione, ripetizione sì, continuazione no. Non puoi lottare con un bestione tanto a lungo, non puoi nemmeno ucciderlo ossia dargli un senso, un senso bianco o un senso con la spada sul muso. Il senso imputridisce o è dilaniato. Ripetere, sì, puoi. Fino a stordirti di ripetizione, epico, dissennato, istupidito in un'epopea —.
Poi mi citò qualche suo verso, ma non erano versi, mi disse, erano solo frasi.
Guardava il soffitto per ricordarle, e poi il bicchiere per tradurle in italiano: "Ci vuole tempo… per imparare certe cose ci vuole tempo… non è facile… Le vuoi? Vuoi che siano tue? Paga… Con che? Col tempo… È la sola cosa che hai, il tempo… Paga, e le cose che vuoi saranno tue… Quali cose?… Le più semplici… Ma devi dar loro la vita, il tuo tempo… E forse otterrai qualcosa, una piccola cosa nuova detta da te… Sarà la tua eredità, perché anche quella dovrai lasciarla…".
Parlava del tempo di una canzone, cantava? Non lo so. Forse, dico io, anzi sì.
Poi ancora, e si capiva che non erano versi ma solo parole diluite nell'alcol: "Il mondo è il posto nel quale noi lasciamo tutto, anche noi stessi. Cosa ho detto? Come la chiameresti tu?". Non lo so, non capivo, cos'è?, una battuta?, un aforisma? "Una stronzata", disse, come diresti tu. Io: ma no. Lui: ma sì. "Devi avere il coraggio di dirla, questo è coraggio. Credere di non dire stronzate: a questo si è ridotta la scrittura, che sarà sempre più un'intrusione da leccaculi, sarà sempre più un pettegolezzo, già sarà tanto se riusciranno a sparlare delle parole, ma non riusciranno nemmeno a fare questo".
Sorridendo, come sorride in superficie chi accetta la sconfitta, che forse è l'unica forma di pace accettabile, sorridendo disse: "Ho fatto come te, ho fatto il cantante, ho avuto la mia serata e la mia nottata di canzoni. Ho scritto quel libro, sentendomi solo, come te, io solo e il mare, la parola che sempre va e viene nelle canzoni: il mare. Senti qua, te ne canto un pezzo: … sono contento… e le stelle sono troppo lontane… per questo nessuno mi chiede di ucciderle… sono contento… pensa se ogni giorno… se ogni giorno dovessi uccidere la luna… se dovessi cercare di farlo… la luna sfugge… ma pensa se fossi costretto… in un mondo pieno d'obblighi, pensa… pensa se fossi costretto a uccidere il sole… sono contento… nessuno me lo chiede… sono nato fortunato… fortunato…".
Il mio amico Ernest Hemingway. Il libro fortunato era "L'uomo vecchio e il mare". E aggiunse: "Mi sono sbrodolato addosso un sacco di canzoni in questo libro, una dietro l'altra, mi sono macchiato, tu puoi capirmi, ho avuto la mia serata, la mia nottata, e adesso possiamo bere insieme fino alla fine di ogni coerenza, fino alla fine di ogni chiarezza, fino a sentire le parole in bocca, deformate, solide e a pezzi, in frantumi, come masticare confetti o ghiaietto : … una frana che cade dal cervello annebbiato, lassù tra le nuvole… la testa… come una pura cima di monte tra le nuvole… Eh?… O no?... Che ho detto?…".
Oggi, 2 luglio 1961, gli è capitato questo incidente, s'è sparato andando a caccia dentro casa.