Annisessanta novecento
Annisessanta novecento estate romaviareggiovenezia…
Quante spoetesse truccate come pitoni, quanti poetonzi e putipoetipù, che mi parevano l'insetto stecco o lo stercorario, e gli scrivanzuoli, le scrittoresse le streghette, i campiellini, i viareggini, gli inclusi e gli esclusi, gli ultimi che saranno i primi, i primi che saranno gli ultimi, i compresi in una rosa e gli incompresi sulle spine, le debuttanti e gli esordienti, i di già morti nascenti, i di già nati morenti: tutti… tutti mi hanno ascoltato cantare sciogliendosi, clienti del night, letterate e letterati dei miei coglioni… Per tutti ho avuto una parola. Per tutti un elogio, un lauro, un alloro. Li ho fatti sentire qualcuno. Ho decretato il loro successo non guardando in faccia nessuno, a tutti dicendo: bravissima, bravo, l'unica, tu sola, tu solo, dedicando canzoni… Perché? Non ammettevo, per me, un pubblico mediocre ossia un pubblico. Cantavo strappando, allora sì, allora sì dalle loro viscere un romanzo ventrale, un poema intestino, cantavo, si inumidivano ovunque, lubrificando gli spazi tra i sensi: annusavano il tatto, ascoltavano il gusto, vedevano con gli occhi chiusi le distese della loro stessa epidermide sensibile sulla quale pioveva la polpastrellità delle papille, soffiava sciroccale l'aroma uditivo… Perché applaudivano, poi? Per rumoreggiare e per far vento, per attenuare l'afa e per attutire l'ululato di un godimento, che faceva cigolare il loro respiro e sbattere la gola come un'anta. Citatemi, citatemi, citatemi quanto vi pare. Ogni mia canzone si può dire che finisse così… ad libitum, ad libidinem… ossia a piacere, a piacer loro, e in testa gli restava il mio motivetto che non va via ma sempre, nella mente, viene. Usciti dal locale, defluivano come da un intestino, erano evacuati nei tombini, negli scarichi, immersi in una chiacchiera gorgogliante, si sturavano da soli, la ventosa spinta in gola, fino in fondo, cavillosi. Avevano da dire, da buttar fuori. La clientela colava dal locale nelle cloache. Erano un tutt'uno di chiome e bolo: la loro carne masticata a furia di chiacchiere, tutto un naccheramento di denti, tutta una mascelleria. Le pagine dei loro libri, come le foglie morte, intasavano, molli, le fogne. E gli stradini bestemmiavano sbraitando magnifici versi spalando: vaffanculo, Italia letteraria. Io uscivo per ultimo, all'alba, guardavo la strada bagnata, come per una scena di film notturno. Bei tempi. Era tutto un cinema, il miglior cinema, perché senza registi tra le palle degli occhi. Alé…